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domenica 26 maggio 2013

Non voglio più vivere alla luce del sole, il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta


 TITOLO: Non voglio più vivere alla luce del sole, il disgusto per il mondo esterno di una nuova generazione perduta
AUTORE: Michael Zielenziger
CASA EDITRICE: Ellint
PAGINE: 397
COSTO: 22€
ANNO: 2008
FORMATO: 21 cm X 14 cm
REPERIBILITA': Raro nelle librerie di Milano
CODICE ISBN: 9788861920224

L'autore (che pare essere stato il primo ad informare gli occidentali del fenomeno Hikikomori) non è uno psichiatra o psicologo, ma un esperto di rapporti economici tra oriente e occidente. Quindi il taglio del saggio non è psicologico, ma giornalistico. Tanto che, dopo una prima parte dove vengono narrate le vicende di persone che stanno facendo Hikikomori (o che sono Hikikomori), il libro lascia spazio ad una analisi (molto approfondita, ma comprensibilissima) socio-economia del Giappone. Il saggio è pieno di spunti ed informazioni interessanti, inoltre è abbastanza recente, quindi si ha uno spaccato non datato della società giapponese. In tutto il libro Zielenzinger è molto duro col Giappone e coi giapponesi.
Sono numerosi i vissuti di ragazzi/uomini Hikikomori, per esempio Kenji. Quando in quinta elementare viene “congelato” (mushi) dai compagni, cioè essi fingono che non esista, abbandona la scuola per qualche tempo (futoko, rifiuto della scuola). Rientra in prima media, ma abbandona dopo poco divenendo per 20 anni Hikikomori. In questo caso, come per quasi tutti, è stato un atto di bullismo (ijime) a far diventare Hikikomori Kenji. Il bullismo è imperante i tutti i gradi della scuola giapponese (ma anche sul lavoro e pure in parlamento!). I docenti non si intromettono nelle dinamiche della classe, chi non si uniforma (vale per tutta la società giapponese, verso persone di qualsiasi età) viene emarginato e spinto a farsi da parte (Hikikomori, espatrio lavorativo o suicidio che sia). Questa sacralità del gruppo spinge le madri dei ragazzi/e vittime del bullismo a dire loro:
“Che cosa hai combinato a scuola per essere maltrattato?”.


Ed è difficile per i ragazzi stessi combattere il bullismo, perché questi non fanno altro che ripetere tattiche che vedono adottare normalmente agli adulti. Il dogma nazionale giapponese sulla loro unicità (rispetto alle altre nazioni) ed uniformità (nella società) rende più accettabile punire con ijime (bullismo) chi non si adatta, perché questi “devianti” minacciano il “wa” (l'armonia).
Un'altra causa di Hikimori tra i giovani è lo stress da studio. Hiro a 6 anni (!) viene bocciato all'esame per l'ammissione ad una prestigiosa scuola elementare (se frequenti una buona scuola elementare, che ti porterà ad una scuola media d'eccellenza, che ti farà fare una scuola superiore prestigiosa che ti aprirà le porte dell'università più importante, allora troverai subito un lavoro...), i corsi iniziavano alle 16 e terminavano alle 22! Il fallimento lo porta alla depressione (a 6 anni) e poi a fare Hikikomori.
Per quanto possa sembrare assurdo (rispetto all'Italia) in Giappone non c'è l'obbligo di andare a scuola. I presidi, insieme agli insegnanti, preferiscono fingere che gli abbandoni non ci siano, perché questo li farebbe vergognare di non aver adempiuto al loro compito di docenti. Nel 2002 si stimavano 410.000 famiglie coinvolte nell'Hikikomori!
I genitori si vergognano della situazione e non intervengono, inoltre la rassegnazione giapponese che nasce dal “shikata ga nai” (non c'è niente da fare) impedisce una reazione pronta, di solito passano anni prima che la madre chieda un qualche supporto esterno..
Gli Hikikomori non tollerano il “sekentei” (chiamato anche “il sistema di regole invisibili”), ovvero il modo in cui una persona è vista agli occhi della società, o anche il bisogno di salvare le apparenze. Perciò non conta quello che sei, ma quello che devi far finta di essere per non incrinare l'uniformità della società giapponese. A proposito di ciò Jun dice: “A me sembra che il mondo là fuori sia piuttosto duro e io non ho il fegato per affrontarlo”.
Gli Hikikomori rinnegano questo sistema fatto di pressione, obblighi e reciproco sacrificio, a cui manca la tolleranza e la compassione. Come estrema protesta e difesa si rinchiudono nella propria stanza.
Ci sono altre facce del malessere sociale giapponese.
Altri al posto di rinchiudersi si lanciano nel consumismo più sfrenato. Aspettandosi di ricevere dagli oggetti di marca il relativo status che essi rappresentano. Se la società non ti garantirà più l'impiego a vita perché fare sacrifici? Tanto vale essere gratificati subito, e più si sentono insicuri più acquistano beni. Qui si inseriscono gli otaku, (stimati in 3 milioni muovono un giro d'affari di 26 miliardi di dollari) con il loro feticismo per gli anime e manga e la cultura kawaii dell'abbigliamento di ragazze/donne giapponesi. Tanto che le ragazzine, per potersi permettere gli abiti e gli oggetti firmati praticano l'enjo kosai (gli appuntamenti a pagamento con adulti).
Esistono poi le “parasaito” (da parassitismo), donne single che vivono coi genitori e spendono tutto lo stipendio in viaggi e beni firmati. Le donne “parasaito” di solito sono quelle che mettono in pratica lo “sciopero dell'utero”, termine che in Giappone indica le donne in carriera che non fanno figli per continuare a lavorare. E come dare loro torto? Per mettere al mondo un figlio sono obbligate a lasciare il lavoro, perché i mariti giapponesi non si occupano della famiglia (visti gli orari che fanno), e se comunque vorranno tornare a lavoro dopo la maternità per loro ci saranno solo ed esclusivamente posti part-time, ovviamente pagati la metà di quello che percepivano prima della maternità. Inoltre se il marito è un primogenito dovranno farsi carico dei suoi genitori.
Per questo la natalità giapponese è tra le più basse al mondo, anche perché le donne giapponesi piuttosto che crescere un bambino fuori del matrimonio preferiscono abortire. Essere madri senza marito è considerata tra le cose di cui più ci si deve vergognare. Per esempio la pillola anticoncezionale viene usata solo dal 5% delle donne, perché i medici dicono loro che prendere i contraccettivi orali è innaturale e potenzialmente dannoso. Mentre sull'aborto non esisto tabù, inoltre le cliniche avranno maggiori rimborsi dalla sanità pubblica con l'aborto rispetto alla pillola...
I suicidi sono un'altra prova che qualcosa non funziona nella società giapponese.
Nel solo 2003 ci sono stati 34427 suicidi, i giapponesi, mancando di una religione monoteista, non considerano un “peccato” il suicidio. Oltre ai “classici” motivi per il suicidio, come scusarsi di un errore per riottenere l'onore perso o sacrificarsi per il gruppo/nazione/Imperatore, c'è ormai la volontà di “uscire di scena”, togliere il disturbo. Di questo sono vittime gli studenti (che si sentono falliti per non aver passato gli esami), gli anziani (che non vogliono più pesare economicamente sui figli) e anche gli uomini adulti con famiglia. La società pretende dai “sararimen” (impiegati) di non lamentarsi mai, non a lavoro e non a casa. Molti cadono in depressione, e non abituati a chiedere aiuto si suicidano. Anche perché la depressione (utsubyo) non è praticamente diagnosticata come malattia, ed è considerato vergognoso ammettere di essere depressi.
Infine c'è la piaga dell'alcolismo, sui cui non esistono neppure dati, visto che l Ministero della Sanità non la considera una problematica degna di essere contrastata. Ed è difficile combattere l'alcolismo in una società che proprio e solo davanti agli alcolici si sbottona e perde formalità. Oltre a considerare che le bevute dopo il lavoro fanno parte integrante delle abitudini lavorative dei giapponesi. C'è l'obbligo di bere, altrimenti il capoufficio si risentirà, bere fino a star male, altrimenti niente carriera. A causa di un deficit genetico al 40% dei giapponesi manca un enzima che li porta immediatamente all'ubriacatura e poi a star male. E' stata coniata anche una parola per questo, “akuro-hara”, che indica il dipendente che è costretto a bere alcolici fino a star male.
Come si vede i temi toccati dal saggio sono tanti ed accennarli tutti non è possibili, specialmente quelli economici, che sono altrettanti (ed interessanti) di quelli sociali.
Szielenzinger analizza la società economica giapponese, per capire i motivi di questa decadenza sociale-economica nata dopo lo scoppio della bolla speculativa del 1991, da cui il Giappone non si è più ripreso. Decadenza che ha portato anche agli Hikikomori. Facendo anche un parallelismo tra il Giappone e la Corea del sud (paesi con usanze simili), che invece ha saputo riformare la società per riprendersi.
Ecco alcuni delle cause che deprimono l'economia giapponese:
-banche indebitate che hanno azioni di società indebitate
-aziende indebitate che hanno azioni di banche indebitate
-economia basata sulle esportazioni, mercato interno quasi nullo
-prezzi dei beni alti per coprire le inefficienze della catena produttiva interna
-difficile individuazione delle responsabilità aziendali e burocratiche
-spese per costruzioni pubbliche (strade, parcheggi, ponti) inutili per mantenere alti i livelli occupazionali nel settore delle costruzioni
-uffici pubblici inefficienti
-sovvenzioni statali a pioggia che creano parassitismo
-il servilismo dei mass media che impedisce la denuncia degli sprechi e della corruzione
-una magistratura con personale esiguo (che quindi non può agire celermente)
-la società civile non esiste, non ci sono mai proteste o scioperi
-debito pubblico al 160% del PIL

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