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domenica 2 marzo 2014

Le icone di Hiroshima, fotografie, storia e memoria




TITOLO: Le icone di Hiroshima, fotografie, storia e memoria
AUTORE: Annarita Curcio
CASA EDITRICE: Postcart
PAGINE: 131
COSTO: 12,5€
ANNO: 2011
FORMATO: 20 cm X 12 cm
REPERIBILITA': Ancora presente nelle librerie di Milano
CODICE ISBN: 9788886795678


Nell'introduzione l'autrice spiega che ha operato una analisi sulla valenza nel dopo guerra delle immagini (fotografia-icona) dell'atomica su Hiroshima. La foto del fungo atomico è diventata l'icona di un evento storico mai più ripetutosi, il cui dramma, per motivi differenti, Usa e Giappone hanno preferito sottacere o dimenticare. Oltre alla foto-icona del fungo atomico di Hiroshima sono analizzate quelle della bambina Sadako Sasaki, immagine assurta a simbolo degli hibakusha, e quella del Genbaku Dome, simbolo della potenza distruttrice atomica. Annarita Curcio affronta anche il contesto storico del periodo finale del conflitto, e di quello appena successivo, con l'occupazione del Giappone e la strategia censoria americana riguardo gli effetti delle due atomiche sulla popolazione.
A mio avviso, nell'esposizione dei fatti storici, vengono prese in toto le parti del Giappone, trasformandoli in vittime inermi della spietatezza statunitense, dimenticando (tranne in una breve parte finale del libro) che è esistito anche un “pre-sgancio delle atomiche”. Cinesi, filippini, coreani, taiwanesi, indonesiani etc etc, loro furono le vittime di quel periodo storico in Asia. Mi è parso che, con la medesima operazione giapponese, si trasformi la tragedia atomica in espiazione dei crimini commessi dal Giappone. Inoltre vengono considerati infondati i timori Usa di un protrarsi della guerra, e dell'ulteriore tributo americano di vite umane necessaria ad occupare il “sacro” suolo nipponico. In merito a questo va ricordato con quanto accanimento i giapponesi difesero Okinawa, che non consideravano parte del sacro Giappone, infatti dopo la guerra lo “regalarono” agli Usa per qualche decennio ( Il mito dell'omogeneita giapponese, storia di Okinawa ), si può immaginare come avrebbero difeso Tokyo. 
Personalmente, per una visione storica più allargata delle motivazioni dei due bombardamenti subiti dal Giappone, consiglio la lettura anche del saggio "Hiroshima e il nostro senso morale".

Capitolo 1: L'icona del fungo atomico: come l'America ha proibito la libertà dell'informazione
Nei giorni e nelle settimane successive alle due detonazioni atomiche numerosi fotografi e cineoperatori si recarono ad Hiroshima e Nagasaki per testimoniare l'accaduto, gran parte di quel materiale fu decretato segreto dagli Usa, e mai pubblicato, in parte distrutto. La foto scelta dai vertici governativi e militari statunitensi come simbolo di Hiroshima fu il fungo atomico ripreso dall'alto, il valore di questa immagine era duplice: testimoniava l'effettiva esplosione atomica, ma ne nascondeva gli effetti devastanti sulla popolazione, lasciandoli solo immaginare.



Nascondendo in quegli anni le devastazioni delle due atomiche gli Usa evitarono il rischio di una qualche riprovazione morale verso la loro decisione, ed impedirono di considerare pienamente la gravità della corsa agli armamenti atomici, infine evitarono il rischio di essere accusati di crimini di guerra.
L'autrice riepiloga troppo succintamente i fatti storici da Pearl Harbor ad Hiroshima e Nagasaki, meglio sarebbe stato, piuttosto che farlo così, saltare questo riassunto storico.
Sui media statunitensi la resa incondizionata del Giappone prese il sopravvento sulla notizia della bomba, e quando i reporter iniziarono a testimoniarla le immagini erano sempre prese dall'alto, mai scatti fotografici sui superstiti, inoltre i giornalisti non specificavano negli articoli il numero di morti e feriti. Uno dei pochi giornalisti che informò il lettore Usa fu John Hersey, che scrisse un reportage da Hiroshima: Hiroshima.
Molto interessante la parte in cui l'autrice spiega qual è il meccanismo che trasforma una semplice foto in strumento per il consenso popolare. Vine proposta una breve storia della fotografia di guerra dalla guerra di Crimea del 1853 alla seconda guerra mondiale, per poi passare ad esempi concreti di propaganda e censura militare riguardo le foto di guerra.
E' ben spiegata la vicenda dei due giornalisti Wilfred Burchett e William Laurence. Il primo denunciò la nuova “peste radioattiva” con articoli sul campo, il secondo (che era a bordo di uno degli aerei del bombardamento su Nagasaki) smentì tutte le notizie riportate Wilfred Burchett, vincendo anche il premio Pulitzer, ma si scopri che era stipendiato dal ministero della guerra.
Sempre per spiegare l'importanza delle foto in guerra è narrata la storia della foto “Raising flag on Iwo Jima.

Capitolo 2: Il Giappone e le sue icone: Sadako Sasaki e il Genbaku Dome
All'inizio del secondo capitolo vengono illustrati gli effetti delle bombe atomiche. Si passa quindi ad elencare i vari documentari che furono girati in quei luoghi nei giorni successivi ai bombardamenti, tra cui uno giapponese, tutti decretati “top segret” e riscoperti solo negli anni 70:
A pagina 68, sempre nel raccontare gli sforzi di vari giornalisti per non far andar persi quei documentari desecretati negli anni 70 che giacevano negli archivi Usa, l'autrice scrive:
“A questo punto entra in scena il famoso studioso e critico cinematografico americano Eric Barnouw, il quale, in una mattina d'estate del 1968, riceve una mail(?!) di una sua amica...”.
Non so, una mail nel 1968 mi pare un po' futuristica come cosa.
In uno dei paragrafi del capitolo viene dato conto della censura operata dagli Usa in Giappone, ma anche dell'autocensura nipponica nel periodo 1945/49, per minimizzare gli effetti delle atomiche, censura che fu applicata a tutti i campi informativi e delle arti. Sono elencati autori ed opere letterarie che subirono una censura parziale o totale.
Il paragrafo 4 è dedicato (finalmente) ad una delle foto-icona, quella della piccola Sadako Sasaki, che nell'agosto del 1945 aveva solo due anni, ed aera a 2 km dall'epicentro atomico.



La foto fu scattata dal suo maestro il 16 marzo 1955, il giorno della consegna dei diplomi, poco prima che la bambina, già malata, fosse ricoverata in un ospedale della Croce Rossa, morì il 25 ottobre 1955. L'autrice spiega cosa trasformò quella semplice foto, una delle tante di bambini e bambine malate di leucemia “atomica”, in icona pacifista.
L'altra foto-icona è quella del Genbaku Dome, lo scheletro di cemento ed acciaio dell'unico edificio rimasto in piedi nella zona della deflagrazione.



Capitolo 3: La memoria e l'oblio
Nel terzo capitolo l'autrice cerca di “mettere in luce le contraddizioni tra la storia con la “s” maiuscola e la storia di quegli uomini coinvolti loro malgrado nella guerra; emergerà un conflitto insanabile tra gruppi antagonisti: gli hibakusha da un lato, i veterani americani dall'altro.”.
A tale scopo viene presentato un fatto accaduto nel 1994 in America riguardo una mostra per il 50esimo anniversario dei bombardamenti atomici. La mostra, che inizialmente doveva celebrare l'aeronautica Usa con l'esposizione dell'Enola Gay restaurato, iniziò a prevedere anche parti in cui si mostrava la distruzione causata dalle bombe. Questa seconda decisione scatenò così tante polemiche che la mostra, alla fine, venne ridotta a poca cosa, rinunciando sia all'aereo che alle testimonianze.
Sul versante nipponico viene evidenziato come la scelta nazionale fu, invece, l'oblio di Hiroshima e Nagasaki.
Mi permetto, di nuovo, di commentare una frase presente a pagina 105, inerente il periodo della ricostruzione post bellica giapponese: “...riescono in tempi relativamente brevi a ricostruire un paese devastato, facendo affidamento su quelle basi liberali e democratiche in parte già preesistenti.”.
Di libri storici sul periodo prebellico ne ho letti un po', e francamente mi chiedo a quali “basi liberali e democratiche in parte già preesistenti” l'autrice si riferisca. I concetti liberali e democratici, ammesso e non concesso fossero patrimonio della popolazione e non solo di una élite minoritaria, erano già stati da tanti anni estirpati dal regime imperiale. I pochi oppositori o erano già stati uccisi, oppure avevano abiurato le loro idee “liberali e democratiche” per abbracciare in toto l'ideologia nazionalistica militarista tramite il “tenko” (conversione o abiura politica). Il tenko funzionava così bene che al momento del crollo del regime nelle carceri giapponesi i prigionieri politici erano pochissimi.
Riguardo agli hibakusha è raccontato di come gli americani li abbandonarono, limitandosi a visitarli per trarre dati scientifici sull'effetto della bomba, senza neppure curarli. Io aggiungo che bisogna ricordare che i governi Usa fecero una cosa simile agli stessi soldati americani che venivano esposti alle esplosioni atomiche su suolo americano, solo dopo molti decenni questi soldati ebbero il diritto ad un risarcimento, e quando si ammalavano nessuno gli rivelava a causa di cosa si erano ammalati, né veniva fornita loro una cura specifica. Questo, ovviamente, non giustifica il trattamento subito dagli hibakusha, però rende l'idea di quanto disinteressati alla salute della gente erano questi governanti e questi militari, la cui unica preoccupazione era il segreto militare e lo studio degli effetti delle radiazioni sulla salute.
Erano delle semplici cavie i loro connazionali, figuriamoci gli abitanti di una nazione sconfitta.
Non diversamente si comportò il governo giapponese, che finché vigeva l'occupazione Usa ignoravano i sopravvissuti, e in seguito ritardarono il più possibile provvedimenti in loro aiuto. Ma la stessa popolazione giapponese mise all'indice gli hibakusha, trasformandoli in nuovi burakumin, a causa dei timori che la futura prole di un hibakusha potesse essere malformata o ammalata. L'effetto fu che molti sopravvissuti alle due bombe atomiche dovettero trasferirsi in altre zone del paese, cercando in ogni modo di rivelare da dive provenissero.
Nonostante l'opera di rimozione degli effetti di Hiroshima e Nagasaki ogni tanto qualcosa tornava a galla nella società giapponese, magari in forme e contesti differenti, come per Godzilla, o per il film del regista Shohei Imamura.
Molto interessante la considerazione di Annarita Curcio secondo la quale gli hibakusha, a differenza degli ebrei che hanno potuto trasmettere ai figli il ricordo del loro olocausto, non hanno avuto neppure questa possibilità. In quanto molti bambini e bambini morirono senza poter diventare adulti, molte donne abortirono a causa delle radiazioni, infine i sopravvissuti avevano difficoltà a sposarsi, quindi venne a mancare proprio tutta una generazione di figli degli hibakusha. Inoltre le testimonianze degli hibakusha erano sgradite al governo, in quanto minavano l'armonia nazionale e i buoni rapporti con il nuovo potente alleato, con cui andava combattuto il nuovo nemico sovietico.
Finalmente a pagina 114 e 115 si riportano quali furono i crimini di guerra del Giappone, ricordando, per esempio, la regola dei “3 tutto” che i militari attuavano sistematicamente nei territori occupati: “uccidi tutto, brucia tutto, saccheggia tutto”.







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